Il popolo ivoriano è costituito da una sessantina di etnie con le caratteristiche proprie dell’Africa, affascinanti ed avvincenti. Tali etnie sono divise in quattro principali gruppi etno-linguistici: Akan, Krou, Mandé e Voltaici. La lingua ufficiale è il francese, ma la popolazione parla il Dioula e il Baoulé. Il francese popolare è arricchito da molte espressioni pittoresche e tipiche del luogo.
La popolazione è caratterizzata da diverse religioni: i musulmani sono i più numerosi con il 38%, i cristiani il 27,5% (tra cattolici e protestanti). Il resto della popolazione è animista o segue religioni tradizionali. Oggi si stanno sviluppando in una maniera vertiginosa numerose sette nelle regioni più popolate, soprattutto nelle città. E’ in questo contesto e con le difficoltà che possiamo immaginare che le Suore della Provvidenza hanno iniziato la loro avventura.
Arrivo delle suore
Le Suore della Provvidenza giunsero in Africa nel 1973. La superiora generale, Madre Spesalma Rigotti, aveva accolto l’invito di Mons. Pietro Cocolin arcivescovo di Gorizia, che, in obbedienza alle direttive del Concilio Vaticano II, offriva il suo sostegno alla giovane chiesa di Bouaké, in Costa d’Avorio ai suoi primi passi di evangelizzazione. La chiesa di Gorizia conosceva già quella diocesi, perché aveva più volte aiutato il suo lebbrosario di Manikrò.
Il primo gruppo degli inviati in missione era composto da due sacerdoti di Gorizia: don Chino Raugna e don Luciano Vidoz, da padre Gennaro del PIME, da due laici: Gianna Pradel e Giuseppe Burnich e da tre suore della Provvidenza: suor Fidenzia Martini, suor Pieralba Bianco e suor Dores Villotti. Dopo un breve periodo di preparazione alla vita missionaria e di studio della lingua francese, il giorno dell’Epifania del 1973, nel duomo di Gorizia, i missionari furono benedetti dall’arcivescovo Pietro Cocolin che consegnò loro il Crocifisso, simbolo del loro mandato.
Il 9 gennaio 1973 il piccolo gruppo arrivò a Kossou, a circa 300 km a nord di Abidjan, nel cuore della Costa d’Avorio, in piena foresta: sarebbe stata la loro sede. Erano circa le ore 17 quando le suore entrarono nella loro casa. Erano felici. Il sole batteva forte, faceva caldo. Indossarono l’abito bianco e si avviarono alla cappella per partecipare alla prima celebrazione del sacrificio eucaristico in terra di missione.
La Parola del Vangelo le commosse: sembrava scelta per quel momento: “Non abbiate timore, rassicurava Gesù, poiché sono in mezzo a voi”. Il giorno dopo, 10 gennaio, le sorelle accompagnate dalla Madre Generale e da don Giuseppe Baldass si recarono a Bouaké per incontrare il Vescovo, Monsignore Duirant. Ma due di loro, suor Pieralba e suor Dores, restarono a casa: erano arrivate dall’Italia con l’influenza.
Le comunità di Kossou
Le tre suore iniziarono la loro attività a Kossou il 13 gennaio 1973. Con gli altri missionari si dedicarono subito a fare conoscenza con le persone, a prendere visione del luogo e ad organizzare il lavoro comunitario. La prima difficoltà non fu la lingua francese, ma il baoulé, lingua parlata dagli indigeni del luogo. Si rimisero tutti sui libri per assimilare la nuova lingua, ricca di espressioni tanto lontane dalla loro cultura.
Lo studio della lingua Baoulé era duro, eppure era fondamentale per annunciare la Parola di Dio.
Ogni inizio è difficile, ma se ci si incammina con determinazione e passione, diventa fonte di entusiasmo e di gioia. Le suore superarono quello scoglio: impararono a comunicare e cominciarono a conoscere ed accogliere una cultura tanto diversa dalla loro, ma non meno ricca ed affascinante.
Intanto, rendendosi conto poco a poco delle necessità della gente, cominciarono a passare regolarmente nei villaggi: visitavano gli anziani e curavano gli ammalati; ma stava loro a cuore soprattutto dedicarsi alla promozione della donna. La comunità missionaria, infatti, si organizzò soprattutto in tre settori: l’evangelizzazione, la promozione della donna e la sanità.
L’evangelizzazione.
La popolazione, in grande maggioranza, era ancora animista. Le suore collaborarono con i Padri per tracciare le linee del progetto di evangelizzazione.
A loro fu assegnata in particolare la formazione dei catechisti. Avevano così la responsabilità di tutta la catechesi nei villaggi più importanti dove preparavano la popolazione ai sacramenti. La domenica animavano la liturgia della Parola quando i sacerdoti non potevano essere presenti. In quegli anni, la situazione in Costa d’Avorio era pacifica e le suore potevano rientrare molto tardi, senza alcun pericolo.
La Promozione della donna
Animate dalla forza del carisma del loro istituto, nato per la promozione della donna, le suore diedero un’attenzione particolare alla formazione femminile. Vi si dedicarono in modo impegnativo nei primi dieci anni, quando il villaggio di Kossou era ancora molto popolato. Insegnavano a cucire e a ricamare, provvedevano all’alfabetizzazione e all’educazione familiare secondo le linee del progetto educativo stabilito. Si recavano anche a Tumbokrò dove esisteva una comunità numerosa di “Burkinabé”, stranieri venuti a lavorare nella piantagione di caffè del presidente e che vivevano in una situazione molto precaria.
Terminato il lavoro della diga do Kossou, gli operai e le loro famiglie lasciarono quella zona. Il villaggio incominciò a spopolarsi e il gruppo di donne e di ragazze diminuì sempre più, per cui le suore, pur restando a Kossou, decisero di spostare il centro di promozione a Zatta, un villaggio sulla strada asfaltata e al centro della missione.
Anche qui i primi anni furono caratterizzati da un lavoro molto intenso, ma poi, con i vari avvicendamenti di suore che si resero necessari, un po’ alla volta, il foyer (centro) si spense e nel 1997 si decise di chiuderlo.
La sanità
Per diversi anni, le suore infermiere curarono gli ammalati a Kossou passando di villaggio in villaggio. A quel tempo c’erano molti casi di infezioni respiratorie e di malnutrizione; la gente era spesso colpita da infezioni intestinali, attaccata dal verme di Guinea, da bilarziosi, malattie legate alla mancanza di acqua potabile. Per fare il giro dei villaggi le suore impiegavano 15 giorni. Al loro arrivo, la gente si riuniva sotto l’albero della piazza pubblica: era il loro ambulatorio e il luogo da cui impartivano consigli di igiene e metodi di prevenzioni. Anni faticosi quelli, ma le suore erano tutte giovani e forti. Partivano la mattina subito dopo la messa e rientravano verso sera. A mezzogiorno si ritiravano lungo la pista per mangiare in tutta fretta un pezzo di pane che, qualche volta, dovevano condividere con chi ritornava dai campi e passava di là.
Se da un lato questo metodo permetteva di curare molta gente, dall’altra non dava la possibilità di fare un lavoro in profondità. Per questo le suore chiesero al settore della sanità di poter aprire un dispensario a Zatta.
L’ospedale di Kongouanou.
Questa esperienza durò solo per breve tempo, perché lo Stato aveva un altro progetto per questo centro di sanità, così le suore trasportarono il dispensario a Kongouanou, a trenta chilometri di pista da Kossou. Il villaggio per se stesso non era grande, ma era accessibile ad una decina di altri villaggi e a numerosi accampamenti e si trovava in una zona sprovvista di ogni struttura sanitaria. Accanto alla cura delle malattie, le suore svolsero un’opera di prevenzione con campagne di animazione sanitaria e di vaccinazione. In quegli anni il morbillo era epidemico soprattutto durante la stagione secca, e lasciava conseguenze gravi come la cecità; spesso portava anche alla morte. Molto diffusa era la denutrizione. Il catechista del villaggio mise a disposizione delle suore una casetta dove i bambini denutriti potessero stare durante tutto il tempo della cura.
Col passare degli anni, per il degradarsi della situazione politico-sociale, i trenta chilometri di pista diventarono sempre più impraticabili mentre il numero degli ammalati cresceva; così dall’agosto 1985, la superiora generale, dietro richiesta della comunità, permise alle suore infermiere di fermarsi nel villaggio anche durante la notte e di rientrare in comunità solo il giovedì, il sabato e la domenica. Incominciò così un nuovo corso, dove i momenti di vita comunitaria si vivevano con più intensità, sia nella fraternità che nella preghiera comune.
Furono raggiunti alcuni obiettivi. Un maggior numero di bambini poté essere vaccinato, fu debellato il morbillo a livello epidemico e mortale e anche la malattia causata dal verme di Guinea, ma sorsero nuovi e gravissimi problemi nel campo della sanità: l’ulcera di Burulì e l’AIDS.
L’Ulcera di Buruli è una malattia scoperta nel 1948 a Buruli (Uganda) e provoca piaghe che, se non curate, possono causare la paralisi degli arti, quando raggiunge i centri nervosi e, a lungo andare, portare anche alla morte. La malattia è provocata da un microrganismo che non è stato ancora individuato. Tale microrganismo è molto resistente, ma con gli antibiotici e speciali interventi chirurgici può essere sconfitto. La cura tuttavia richiede molto tempo e tanta pazienza; l’ammalato deve restare in dispensario anche più di un anno per raggiungere la guarigione.
Bisognava rispondere a queste nuove emergenze, per cui fu costruito un piccolo ospedale. La struttura comprende: il dispensario, la sala operatoria e post-operatoria, una farmacia, due padiglioni per gli ammalati e i loro assistenti, un’aula per l’alfabetizzazione, una sala da pranzo e una cucina con la dispensa.
Nel 1995, le suore stipularono una convenzione con il ministero della sanità. Il centro divenne semi-privato, ma l’organizzazione e gestione rimasero affidate alle suore.
La nuova casa di Yamoussoukrò
Nel giugno del 1998, la superiora generale trasferì la comunità di Kossou a Yamoussoukro: la capitale politica del Paese. Il vescovo mons. Paul Simeon Ahouanan aveva donato alla Congregazione un terreno per costruire l’abitazione delle suore. La nuova casa venne benedetta il 30 aprile 2000.